Carovane Migranti: rompere il silenzio, costruire dignità

Carovane Migranti: rompere il silenzio costruire dignità

Con questa frase di Vera Vigevani Jarach, madre di Plaza de Mayo, Carovane Migranti accoglie nella pagina del “Chi Siamo” i visitatori del proprio sito. Un invito fatto proprio e praticato dal collettivo di attivisti attraverso una dimensione, quella del viaggio, fuori dai luoghi e dalle prassi comuni di chi si occupa di migranti e immigrazioni.

Perché “il viaggio, oltre a condividere storie che sarebbero inevitabilmente destinate all’oblio, permette di consolidare rapporti di collaborazione e solidarietà rispetto alle buone pratiche che crescono inaspettate in decine di realtà in resistenza”.
Di queste esperienze e di accoglienza ne abbiamo parlato con Marta Peradotto di Carovane Migranti . 

Da una parte i corridoi umanitari, dall’altra “aiutiamoli a casa loro” oppure, ancora, “alziamo muri”, “chiudiamo i porti”, qual è la vostra posizione in merito a chi fugge da guerre, spesso civili, carestie, miseria, fame, da pulizie etniche e persecuzioni, dalla mancanza di libertà e democrazia, dalle palesi ingiustizie sociali, dall’assenza di prospettive?
Partendo dall’assunto che la libera circolazione dovrebbe essere un diritto per tutti, poiché nessuno è responsabile in prima persona del luogo in cui nasce e una libertà valida solo per alcuni e regolata da interessi economici e accordi tra Stati non è una vera libertà né un vero diritto a causa della sua parzialità, nondimeno vi sono dichiarazioni e articoli di legge internazionali sanciti in determinate epoche storiche e ancora validi che contemplano il diritto alla libertà di movimento e di migrazione. Primo tra tutti la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 all’articolo 13.

Libertà di partire, diritto di restare, dunque.
Dati e analisi storiche attestano che alla libertà di migrare, sia giuridica che sostanziale, non corrisponde necessariamente un aumento di emigrazioni volontarie.
Inoltre diverse norme regolano e tutelano il diritto d’asilo per determinate categorie di persone, categorie alle quali ci appelliamo nello stilare una “gerarchia del migrante” e stabilire chi ha più diritto e chi meno al diritto, dimenticando una volta di più che i diritti dovrebbero essere per tutti gli stessi. E così chi fugge dalla povertà e dalla fame, di fame e povertà sarà costretto a morire, chi vive nella guerra dovrà attendere di sapere se è una guerra comoda o scomoda per le grandi potenze, chi ha fatto scelte dissidenti o sconvenienti dovrà ravvedersi sulle stesse, chi è minore dovrà fingersi adulto e chi è maggiorenne dovrà fingersi minorenne, chi sarà semplicemente se stesso non verrà creduto né preso in considerazione. Tornando alle leggi, la Convenzione di Ginevra del 1951, ratificata dall’Italia con legge n. 722/1954 afferma che ha diritto a richiedere l’asilo chi ha subito violenze/persecuzioni, ovvero ha giustificato timore di subire violenze/persecuzioni, nel paese di origine per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche. Il Principio di «non respingimento» (art. 33, Convenzione di Ginevra) prevede che nessuno Stato contraente possa espellere o respingere, in nessun modo, un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza a una determinata categoria sociale, opinioni politiche.
Infine, per quanto riguarda il nostro territorio nazionale, l’articolo 10 della Costituzione italiana aggiunge che lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

Se questa è la legislazione in essere perché allora sembra che la stessa venga violata dagli stessi stati firmatari?
Probabilmente il vuoto legislativo sulla regolamentazione dell’asilo in Italia successivo al 1948 non ha aiutato, permettendo ai governanti e alle istituzioni di aggirare le norme costituzionali e internazionali con l’emanazione di circolari ministeriali ad hoc, decreti legislativi quali il Testo Unico sull’Immigrazione del 1998 che mostrano evidenti contraddizioni rispetto ai principi sopracitati. Il tutto è stato aggravato dal regolamento di Dublino che, nonostante le modifiche subite negli anni, continua a immobilizzare le persone alle frontiere, vincolando le richieste d’asilo ai paesi di primo approdo. Allora che cosa rimane? Rimangono le idee, i valori, le persone, rimane l’indignazione verso l’ipocrisia di chi vorrebbe aiutare a casa loro dopo aver distrutto con secoli di colonialismo, depredazione e neocapitalismo sfrenato quelle loro case. Chi detiene il potere finanziario globale è responsabile delle cause che determinano le emigrazioni dal resto del mondo, guerre, miseria, fame, annullarne gli effetti senza rinunciare ai profitti non è pensabile in assenza della bacchetta magica.
Rimane la certezza che la migrazione non si ferma perché è un’esigenza intrinseca alla natura umana che ci ha permesso di conservarci ed evolverci come specie e perché, quando forzata da condizioni ambientali, politiche, economiche, risponde al primordiale istinto di sopravvivenza, di fronte al quale non vi è muro, prigione, legge o minaccia che tenga. L’istinto alla sopravvivenza oltrepassa qualunque frontiera, scova accessi sempre più nascosti e rischiosi e macchia irrimediabilmente le coscienze di chi ha la pretesa di decidere della vita e della morte altrui in nome di una presunta sovranità e appartenenza territoriale. Legalmente o illegalmente l’uomo continua a passare nel tentativo di salvarsi e nella speranza di costruire un futuro, negare questa evidenza e tentare di impedirlo porta solo ad un incremento di costi in termini economici, ma in primo luogo di vite umane. La spesa destinata al controllo marittimo e all’esternalizzazione delle frontiere supera quella che potrebbe essere impiegata per consentire canali sicuri e trasparenti d’accesso, l’uguaglianza nel diritto a richiedere e ottenere un visto potrebbe altresì consentire ai migranti, soprattutto ai più giovani, di non idealizzare le mete proibite, bensì di visitarle e scegliere con consapevolezza e cognizione di causa il proprio destino. Tutto ciò però costringerebbe gli Stati a non creare il proprio bottino sul business dell’immigrazione “clandestina”, impedirebbe la zona grigia costituita dallo sfruttamento e dal lavoro nero, smaschererebbe le influenze mafiose dentro e fuori l’apparato istituzionale. Nessun governante della nostra ricca e aguzzina parte di mondo vuole questo e, anzi, per scongiurare un cambio in tale direzione, alimenta la politica della paura, dell’odio razziale, mascherando dietro al colore della pelle e alla differente appartenenza culturale e confessione religiosa, la vera e unica sostanziale differenza, quella di classe e di accesso alle risorse.

Rispetto alle politiche internazionali e nazionali in atto allora si può intervenire in qualche modo, si può fare qualcosa per modificarle?
Ci verrebbe da rispondere “infrangerle”, dal momento che cambiarle implica un percorso lungo e difficile durante il quale le persone in transito continuano a morire a gruppi di centinaia alla volta, in mare, nel deserto, nelle prigioni libiche, nei campi dove raccolgono sfruttati, stuprati e massacrati, la nostra bella e succosa frutta di cui tanto va fiero il mercato ortofrutticolo italiano. Ma soprattutto cambiare le politiche nazionali e internazionali implica la volontà di farlo e per le ragioni spiegate in precedenza, questa volontà si scontra con l’interesse delle oligarchie al potere sul globo terrestre.
Forse l’unica cosa che possiamo fare è non arrenderci, continuare a guardare gli assassini negli occhi, restare uniti, scendere nelle piazze, protestare al fianco di chi lotta per un diritto, nella consapevolezza che il suo diritto è anche il nostro, conoscere lo “straniero”, parlarci e scoprirlo fratello, compagno, simile; partire dai giovani, dalle scuole, insegnare a pensare in un’epoca storica dove la fretta ha sostituito la noia che genera le idee, insegnare le emozioni prima ancora delle nozioni, ripassare la Storia, trasmettere empatia e il valore dell’umanità. Possiamo aprire la porta di casa, ma soprattutto quella della testa e del cuore.

Ad esempio come fa Carovane Migranti?
Carovane Migranti, il nostro collettivo di attivisti, è una piccola realtà che continua però a credere a quel ponte tra le lotte e le persone da ampliare e rinsaldare ogni volta che ci si trova di fronte a un nuovo muro. Avevamo avuto l’intuizione, che alcuni al tempo definivano avventata e che è poi diventata tristemente veritiera, di dover guardare con attenzione alla situazione messicana come luogo di emigrazione e passaggio di migranti, come tappa di scomparsa e morte sotto le grinfie dei cartelli del narcotraffico in combutta con l’apparato statale. Temevamo, e ora sappiamo, che quella atroce realtà avrebbe presto riguardato anche noi, l’Italia e l’Europa tutta, che relegare e “regalare” la migrazione all’illegalità avrebbe dato spazio alla criminalità organizzata e all’imposizione di politiche che paventano un ritorno ai fascismi e ai regimi totalitari del passato. Che nascondendo i corpi o lasciandoli alla profondità del mare ormai tinto di rosso, la verità sarebbe stata sepolta per sempre, l’opinione pubblica messa a tacere, convinta di trovarsi davanti a un fantasma e non a una realtà da film dell’orrore.

Nel concreto come operate e finanziate i progetti che portate avanti?
Siamo un collettivo eterogeneo di attivisti, la maggior parte dei quali vive a Torino. Il gruppo è totalmente autofinanziato tramite l’organizzazione di cene ed eventi di formazione/informazione. Ogni anno organizziamo una carovana per i diritti dei migranti, la dignità e la giustizia. Le precedenti tre edizioni si sono svolte sul territorio italiano attraversato da nord a sud per incontrare e conoscere realtà e pratiche di buona e cattiva accoglienza e soprattutto per dar voce ai testimoni mesomericani e nordafricani che viaggiano con noi. Quest’anno la quarta carovana è partita alla volta della Tunisia dove abbiamo incontrato le madri e i famigliari dei ragazzi dispersi attraversando il mediterraneo per arrivare in Italia. La seconda parte della carovana ha invece attraversato il confine italo francese da Ventimiglia a Bardonecchia, Claviere e infine Briancon.

Confini che sempre di più stanno diventando l’occasione per sentirci dire “che siamo invasi” e chi aiuta “gli invasori” non gode certo di buona fama. É possibile secondo te ribaltare questa visione?
La criminalizzazione dei migranti trascina con sé la criminalizzazione di chi si occupa con onestà e umanità di immigrazione, di chi resta solidale e non a caso sempre più spesso si parla di reato di solidarietà e piovono denunce e condanne per chi decide di ascoltare la propria coscienza e infrangere leggi inumane per rispettarne altre quali la non omissione di soccorso e la legge del mare. Ribaltare questa visione significherebbe smascherare l’ipocrisia e il profitto che regnano sovrani e trasformano gli esseri umani in merce. Fortunatamente in ogni parte del mondo permangono e resistono isole di lotta e opposizione a questo processo degradante. Ne abbiamo incontrate e conosciute diverse dalle patronas messicane ai pescatori di Lampedusa e delle coste tunisine fino a Delia, proprietaria del bar Hobbit a Ventimiglia, signora umile e straordinaria nella sua ordinaria umanità e sensibilità.
In lingue e da luoghi diversi, rispondono tutti alla stessa disarmante maniera: “Non facciamo nulla di eroico o straordinario, restiamo semplicemente umani.” Finché rimarrà questa parte di umanità, disposta a perdere lavoro, vita e libertà per difendere i diritti di tutti, non si potrà perdere del tutto la speranza.

Quindi a chi dice che siamo invasi che cosa si può rispondere?
A chi parla di invasione, ammesso che ci voglia ascoltare, possiamo rispondere anche solo con semplici dati: 1.443 morti nel Mediterraneo nel 2018 (dato Oim).
Oltre 50.000 (per l’esattezza 50.872) migranti e rifugiati sono giunti in Europa via mare dall’inizio del 2018 al 15 luglio scorso e 1.443 persone sono morte mentre tentavano di raggiungere le coste europee, ha indicato l’Organizzazione internazionale per le migrazioni.  Il totale degli arrivi è pari a circa la metà del dato di 109.746 registrato nello stesso periodo l’anno scorso. Anche il numero di decessi del 2018 risulta inferiore a quello segnalato nello stesso periodo dell’anno scorso (2.381), ma è proporzionalmente maggiore rispetto al numero delle partenze. La rotta del Mediterraneo centrale verso l’Italia resta la più pericolosa, con 1.104 vittime registrate dall’inizio del 2018, quasi quattro volte il numero degli annegamenti avvenuti sulla rotta per la Spagna (294), benché i numeri degli arrivi nei due Paesi siano quasi identici. Inoltre l’86% dei migranti forzati nel mondo è ospitato da paesi cosidetti “in via di sviluppo”. Ci sono 193 paesi nel mondo e 21 milioni di rifugiati. Più della metà – circa 12 milioni – vivono solo in 10 di questi 193 paesi. I paesi che ospitano un numero così elevato di rifugiati non sono in grado di sostenerli. Molti rifugiati vivono in estrema povertà, senza accesso ai servizi di base e senza speranza per il futuro. I primi 10 paesi in ordine per numero di migranti sono: Giordania, Turchia, Iran, Pakistan, Libano (25% della popolazione totale è immigrata rispetto allo 0,6 % dell’Italia per intenderci), Etiopia, Kenya, Uganda, Chad, Rep. Democratica del Congo.
Neanche tra i paesi europei l’Italia risulta essere ai primi posti per numero di migranti presenti.
Dei 65.3 milioni di migranti forzati nel mondo 40.8 milioni sono sfollati interni cioè persone emigrate senza varcare i confini del proprio paese; l’85% dei migranti si ferma nei territori limitrofi, soprattutto nel continente africano. Lo stesso vale in Medio Oriente se consideriamo ad esempio la percentuale di popolazione siriana emigrata in Libano.  (Dati tratti dal Report Coordinamento rifugiati e migranti, Amnesty International sezione italiana)
I dati dunque dimostrano con estrema semplicità che parlare di invasione degli immigrati in Italia o in Europa è assolutamente falso, l’ennesima bufala mediatica somministrata a un popolo che si è impigrito al punto da non avere neanche più voglia di informarsi e di verificare le fonti del “sentito dire”. Un popolo, il nostro, sempre più ignorante e beceramente razzista che, se non sarà in grado di compiere nel pensiero e nelle azioni un radicale cambio di rotta, rischierà a breve di ricadere negli errori del peggiore dei passati, quello che nei racconti dei nonni, ci faceva salire un brivido di terrore su per la schiena.

Marta Peradotto, Carovane Migranti

Per saperne di più: FB CarovaneMigrantiwww.carovanemigranti.org

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