Gennaio – Settembre 2016

Riceviamo e pubblichiamo un contributo/riflessione di Marta Peradotto di Carovanemigranti. Un viaggio testimonianza lungo nove mesi tra Lesvos, Idomeni, l’Italia da nord a sud, Atene, Salonnico e Como che racconta di “vite bloccate”.

Lesvos, gennaio 2016, gruppo di volontari di Un Ponte Per [1]
Primi giorni di gennaio, il nuovo anno porta ogni notte o mattina tra le mille e le duemila persone sulle coste dell’isola. Quando non le regala al mare che inghiotte le lacrime insieme ai corpi.
Raccapricciante il business attorno all’emergenza sbarchi, le ordinanze comunali contro la somministrazione di alimenti, il mercato nero di giubbotti, motori, schede telefoniche e beni di sussistenza. Criminale la vendita di falsi giubbotti di salvataggio sulla costa turca. Inquietanti i metri di filo spinato un po’ ovunque.
Vergognosa anche l’attività di alcuni giornalisti interessati al gossip più che alla notizia, all’immagine del bambino ma non al bambino.
Questi i lati negativi, i motivi per cui indignarsi e continuare la lotta contro qualunque confine, contro la libertà di movimento delle persone, contro l’atrocità delle guerre e del terrorismo compreso quello istituzionale.
Ecco però che in mezzo all’orrore ho potuto essere testimone e parte attiva della bellezza di chi nonostante tutto resta umano, di chi dedica la propria esistenza e le proprie energie a ricostruire laddove si distrugge, a porgere una mano, a cucinare un pasto caldo, a regalare vestiti, a prestare le orecchie, a sporcarsi di fango, a buttarsi in acqua, a far ridere un bambino, a sorreggere un anziano, a cambiare un pannolino, a ricevere giorno e notte sos dal mare, a far turni di otto ore, a lavare vestiti, a prestare cure e prima assistenza, a distribuire acqua, coperte e merendine, ad asciugare piedi e cercare di scaldare cuori bagnati da un viaggio assurdo, a riordinare magazzini, a riempire scatoloni, a disegnare con gli acquerelli per ridare colore al buio di una mare notturno in tempesta.
Tutto questo e non solo ho trovato a Lesvos, insieme all’accoglienza della gente del posto rassegnata  a vedere profughi e volontari ma neanche un turista e non per questo incapace di ascoltare, offrire aiuto, portare un dolcetto di mandorle e miele a chi scruta senza sosta il mare con torce e cannocchiale.

[1]  Un ponte per… è un’associazione di volontariato per la solidarietà internazionale nata nel 1991 subito dopo la fine dei bombardamenti sull’Iraq e l’inizio dell’embargo, con lo scopo di promuovere iniziative di cooperazione a favore della popolazione irachena colpita dalla guerra. (www.unponteper.it)

Idomeni, marzo 2016, carovana solidale Overthefortress [1]
Dodicimila persone accampate al confine tra Grecia e Macedonia in tende da campeggio, nei vagoni merci di treni in disuso, dai binari della vecchia ferrovia alle enormi distese di erba e fango; 40% di loro sono bambini. Pioggia, fango e fumi tossici perchè per scaldarsi a Idomeni si può solo bruciare la plastica, quando va bene la stoffa.  Manca tutto a Idomeni, tutto tranne la dignità, la speranza e la forza di non arrendersi. Non è poco in un  non luogo dove la vita è scandita da un tempo sospeso, da un’attesa infinita, dove se hai sete devi metterti in coda con altre migliaia di persone, dove se ti mancano le scarpe devi sperare che in Europa ci sia qualcuno che calza un numero che si avvicina al tuo, che abbia un paio di scarpe di cui vuole disfarsi ma che non siano troppo disfatte, che sappia che esisti e che le tue scarpe sono state consumate dalla fatica di un viaggio che non è ancora finito e, non in ultima istanza, che abbia voglia di regalartele.
Eppure la nostra presenza lì, in 300 da diversi posti d’Italia era apprezzata non tanto per gli aiuti umanitari che portavamo quanto per la voglia di ascoltare, di essere a fianco, di non voltarsi dall’altra parte.
Quel sorriso per cui tutti mi avete ringraziato, quel sorriso, lo confesso, all’inizio era d’imbarazzo perché piangere non sarebbe stato giusto, perché non è di tristezza che c’è bisogno ad Idomeni. E allora ho provato a sorridere, per vergogna e timidezza. Ma il sorriso è contagioso, così come mi si riempivano gli occhi di lacrime quando vedevo inumidirsi quelli dei padri, così il mio sorriso si allargava e diventava vero quando lo vedevo sulle bocche dei bambini, dei ragazzi, della donna che, tirandomi il braccio e indicandosi la pancia, mi ha urlato gioiosa: “Vieni, sta nascendo un bambino!!!“. Così, il 26 marzo, giorno del compleanno di mia mamma, a Idomeni è nato un bambino, a due passi da me, dentro ad una tenda Quechua, sui binari di una ferrovia.
A scaldare la sua venuta al mondo un falò di vestiti e plastica e tanti, tantissimi sorrisi. Perché a Idomeni ho imparato che la vita nessuno la può fermare, che la speranza non muore mai, che la lotta cresce se la si fa insieme.
A Idomeni ho imparato che si può sorridere, si deve sorridere. Sempre e comunque.

[1] March#overthefortress, carovana solidale che, partita via mare e via terra dall’Italia e da diverse città europee, ha raggiunto il confine greco-macedone di Idomeni.
Testimonianze e articoli sul sito del Progetto Melting Pot Europa (www.meltingpot.org)

Carovana italiana per i diritti dei migranti, per la dignità e la giustizia, aprile 2016 [1]
Da Torino a Catania dove si è conclusa con la manifestazione contro Frontex,  passando per varie tappe della penisola: Mondeggi, Roma, Pescara, Casal Di Principe, Riace, Sutera, Caltanissetta, Vittoria, Niscemi, Siracusa, Palermo, Mineo, Catania. Tappe diversamente legate al fenomeno migratorio e ambientale,  fattori strettamente interconnessi tra loro dal momento  che lo sfruttamento dell’ambiente e l’espropriazione delle risorse sono sempre più causa di emigrazioni o terreno fertile per lo sfruttamento dell’immigrazione. Obiettivo del viaggio quello di conoscere le diverse realtà, promuovere le buone pratiche d’accoglienza, denunciare le forme di caporalato e sfruttamento, soprattutto costruire ponti tra isole anche distanti nello spazio, ma assai vicine nelle forme di lotta e resistenza e nelle cause che le originano. Isole che non si voltano dall’altra parte, dal Messico al Mediterraneo e che ci parlano attraverso le testimonianze: Ana Gricelides Enamorado,  mamma hondurena alla ricerca del figlio scomparso sei anni fa durante l’infernale viaggio dal Messico agli Stati Uniti; Guadalupe Gonzales Herrera, una delle patronas messicane, speranza di sopravvivenza per migliaia di migranti ai quali lanciano acqua e cibo sul tetto della Bestia, il  treno scenario di morte per morti di loro; Omar Garcia Velazquez,  sopravvissuto al massacro dei 43 studenti di Ayotzinapa; Imed Soltani rappresentante dell’associazione tunisina “La terre pour tous” che da cinque anni rappresenta le famiglie di 504 ragazzi dispersi durante il viaggio migratorio verso l’Italia e le supporta nella loro ricerca, nel tentativo di ritrovarli o di conoscere la verità sulla loro sorte; Kouceila Zerguine, avvocato algerino, che dal 2007 porta avanti una lotta contro l’insabbiamento delle scomparse degli Harraga, i “bruciatori di frontiere”.
Cinque persone, diversi vissuti, lingue e culture, unite dal sogno comune di vincere l’indifferenza, scoprire verità per quanto dolorose e riportare la giustizia laddove ci si dimentica con troppa facilità dei diritti umani.
Ritorno a casa con una valigia più pesante, al suo interno oltre al libro sui desaparecidos regalatomi da Ana, i racconti, le emozioni, la paura, la forza di chi avendo perso tutto non ha niente da perdere e trasforma il dolore in lotta, la rabbia in ricerca, senza resa, a testa alta perchè migrare, vivere, amare sono caratteristiche umane universali e devono essere diritti di tutti.
Si prevede una terza carovana nel periodo di aprile-maggio 2017 con la partecipazione di vecchi e nuovi testimoni provenienti dall’area mesoamericana e del Mediterraneo.

[1] Carovane Migranti è un progetto nato a Torino due anni fa, portato avanti da un gruppo eterogeneo per età e formazione che si pone come obiettivo la sensibilizzazione sul territorio rispetto all’accoglienza dei migranti e la creazione di ponti tra realtà di lotta e resistenza unendo le testimonianze del movimento migrante mesoamericano a quelle dei migranti del Mediterraneo. Ad oggi sono state realizzate due carovane in Italia e la terza è prevista per  fine aprile 2017. Pagina fb: CarovaneMigranti, sito web: www.carovanemigranti.org

Atene e Salonicco, luglio 2016
Trovarsi nella stessa situazione di disagio abitativo e socio economico con persone che arrivano da fuori e i cui volti mostrano l’orrore della guerra, i solchi della fame e la crudeltà della persecuzione, può generare due modalità d’azione diametralmente opposte per rispondere al medesimo problema: da un lato lasciarsi guidare da una paura ignorante che alimenta e giustifica la xenofobia e la “caccia all’invasore” (vedi Alba Dorata), promuovendo la guerra tra poveri dove è più facile contendersi rabbiosamente le briciole che alzare la testa a guardare chi ha in mano la pagnotta. Dall’altro esiste una risposta solidale che unisce le forze, canalizza l’empatia, comprende le cause, accoglie senza giudizio, condivide il poco che resta e dà origine a isole felici come il City Plaza Hotel di Atene, dismesso da sei anni e occupato da alcuni attivisti e profughi a partire da aprile 2016 dove vivono quasi 400 persone, tutte famiglie con figli minori o anziani a carico.
Le nazionalità di provenienza  sono prevalentemente Siria, Afghanistan, Iran, Kurdistan, Iraq, Palestina e Pakistan. “Ciiiiiiity plaza ciiiiiiity plaza ciiiiiity plaza!” è il festoso coro dei piccoli abitanti, nettamente in maggioranza sugli adulti, al rientro in hotel dopo la scuola estiva che frequentano a luglio ogni mattina i bambini in età scolare.
Ad attenderli sulla scalinata all’ingresso restano i più piccoli, dito in bocca, pupazzo sotto il braccio, bolle di sapone e una bicicletta senza un pedale.
Ci sono giorni che può sembrare normale, scene di vita quotidiana, scaramucce per una sayara (macchinina), risa e pianti come qualunque bambino di quell’età. Ci sono giorni che non ti accorgi di quel moncherino al posto del braccio, di quello sguardo velato, di quella guerra che si portano dentro e che sfocia in un litigio un po’ oltre le righe, in un pianto che non è facile consolare, in un abbraccio troppo forte da sostenere. “Maifrien, maifrien!!!” è il nome con cui viene chiamato ogni volto occidentale, senza particolare discriminazione, annullando la paura dell’estraneo, cercando il contatto del corpo in un modo che può risultare solo estremamente affettuoso a chi non è abituato ad avere a che fare ogni giorno con cuccioli umani in crescita ma che lascia spazio ad un brivido sottile sottopelle a chi invece conosce la comune timidezza e la sana diffidenza che accompagnano l’incontro con chi si vede per la prima volta. Maifrien è la speranza, la ricerca di un alleato o di un lasciapassare per l’adulto; maifrien è la caramella, un foglio bianco che diventa subito rosso di sangue, nero di fumo, grigio di maceria “casa maifrien….bum, Surya!”, un foglio liscio che si piega preciso su linee marcate e si trasforma in aereo, un aereo da lanciare, una aereo che lancia…
I bambini sono ovunque al City plaza, li trovi sulle scale, sul mancorrente, in cucina, nella hall, sui balconi e poi esci fuori, in strada e ne trovi altri e quelli sono i bambini che non vorresti incontrare perchè sei costretto a dirgli, no, mi spiace, l’hotel è pieno, non vi è più posto, sì puoi entrare per fare la pipì ma poi subito fuori, l’acqua te la vado a prendere io, non è vero che la tua mamma vive al piano di sopra, ho detto no, non si può. E tutto questo non è importante in che lingua lo dici perchè tanto un bambino continuerà a insistere, perchè un bambino non può capire perchè lui no. Ed è bene che non lo capisca, serve a ricordarci di restare umani.
A nessuno dei volontari del city plaza piace rifiutare e chiudere la porta, ecco perchè il turno di sicurezza e accoglienza è forse il più faticoso e meno ambito, controllare il pass, chiedere spiegazioni, ricevere in dono frammenti di storie e poi dover comunque abbassare lo sguardo e mormorare, “No, there isn’t place”. Ma non è cattiveria, è necessario per non trasformare l’hotel nell’ennesimo campo profughi invivibile e malsano. Per salvaguardare dignità e persone, per poter vivere e non solo sopravvivere. Perchè di esseri umani si tratta, non di polli in batteria.
Poco distante dal City Plaza e da centri e scuole occupate dove è sorta un’accoglienza spontanea, si aprono però anche scenari raccappriccianti, quali le realtà dei campi governativi: ho avuto modo di visitare Skaramagas e Elliniko ad Atene, Softex e Oraiokastro a Salonicco. Distese infinite di tende ammassate in vecchi areoporti o all’aperto su lande di terreno e asfalto senza un filo d’ombra per proteggersi dall’impietoso sole di luglio, cinque docce per millecinquecento persone o, nel migliore dei casi, una fila di bagni chimici che, sotto la calura insistente, di igienico conservano solo il ricordo; fumi tossici che si spandono dalle zone industriali circostanti. Sono luoghi in cui riaffiorano alla memoria celebri riflessioni e analogie con un passato che speravamo non doversi più ripetere. Ditemi se questo è un uomo…

Como, agosto e settembre 2016
Como, patria natale  di storici e scienziati, Plinio, il vecchio e il giovane, Alessandro Volta, inventore della pila. Como, patria dei promessi sposi, rifugio e morte di un Mussolini ormai spacciato, dimora eletta da  star hollywoodiane …
Como, città di frontiera, sei minuti di treno da Chiasso, Svizzera. “Infine la vicinanza con la Svizzera poteva offrire una estrema possibile via di fuga, anche se Mussolini aveva sempre detto di rifiutare questa possibilità, consapevole che le autorità svizzere, fin dall’estate 1944, avevano rifiutato la richiesta d’ingresso nel loro paese ai gerarchi fascisti e ai loro familiari(…)”[1]
Eppure ormai lo sappiamo che quel confine ha rappresentato, per tanti di quei biechi individui, la possibilità di fuggire alla giustizia, al prezzo del male recato; il corso degli eventi ha svelato l’inganno di un rifiuto d’ingresso solo apparente.
C’è da augurarsi che la Storia eurocentrica, dettata dai vincitori, scritta dai coloni non sia arrivata sulle pagine dei libri degli studenti eritrei, etiopi sudanesi perchè, se sapessero a quanta e quale gentaglia quel varco tra stati ha salvato la pelle, non potrebbero certo accettare che la loro valga meno solo perchè nera. Non nel 2016.
Ma Como è anche un gelataio che quando scopre che diamo una mano ai migranti in stazione ci ringrazia e dice:”I coni a voi li offro io”. Como è un kebabbaro che mette da parte i cartoni da usare come materassi e dice “Se potessi chiuderei subito il negozio per venirvi ad aiutare, grazie per quello che state facendo”. Como è la signora di età avanzata che si offre di aiutarci a portare al campo cassette di legno e cartoni mentre aspetta il marito.
Stazione. Luogo di passaggio, di saluti e fazzoletti bagnati di lacrime, luogo di attesa, trepidazione e valigie. Un ultimo abbraccio, un fischio che si leva alto nell’aria, uno sguardo veloce a ciò che si lascia e una meta da raggiungere. Luogo di sosta temporanea, di arrivo e di partenza di viaggiatori e merci, recita il dizionario. Eppure alla stazione di Como si arriva ma non si parte. Coperte stese a terra al posto delle valigie. Le lacrime sì, quelle ci sono, bagnano i volti delle centinaia di ragazzini poco più che quindicenni, i loro corpi, simboli del viaggio, diventati cartine geografiche, le braccia, coperte di cicatrici da tagli e mozziconi spenti addosso, svelano il doloroso passaggio in Libia.
Quattrocento migranti stranded, provenienti principalmente da Eritrea, Etiopia, Sudan ma anche Mali, Gambia, Costa D’Avorio, Somalia, Pakistan, in fuga da conflitti, leva militare obbligatoria, fame e povertà, attendono da mesi di poter varcare il confine e da mesi vengono bloccati nei loro tentativi, spogliati, perquisiti, spesso deportati sui pulman a Taranto contro la loro volontà. Maggiorenni, minorenni, famiglie con bambini, nulla fa la differenza quando si perde di vista la persona e a parlare sono numeri e pezzi di carta. Mentre la legge si arrovella nello stilare una “classifica dei diritti”, nel distinguere profughi di guerra da migranti economici, la lingua parla chiaro e svela le responsabilità del passato; così scopri che la ragazza diciottenne che parla tigrigno usa un lessico molto simile al tuo…borsa, macchina, caramella, sarto, vetro, finestra.Ti chiedi perchè ma sai già la risposta… Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti. Intanto Kaddùs spegne sei candeline sulla torta apparecchiata alla meglio vicino ai binari. Buon compleanno bambino, ti auguro un futuro migliore, o almeno un futuro.

[1]     Cit. https://it.wikipedia.org/wiki/Morte_di_Benito_Mussolini

[a cura di Marta Peradotto]

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