Venezia, caccia al Leone

Venezia cacciaal leone

Giornali generalisti e specializzati, in Italia e soprattutto all’estero, stampati e on line, siti e blog, hanno dato fondo alla disponibilità delle iperboli: festival da record, l’edizione più bella di sempre, ricco, sbalorditivo, strabiliante, vario… Perfino “inclusivo”, termine che va di moda per altre tematiche ed eventi sociali. In effetti, i titoli e gli ospiti messi insieme dal direttore Alberto Barbera, che così prende astutamente atto dell’aria che tira da qualche tempo nei gusti relativamente nuovi del pubblico e soprattutto dei modi ancora nuovissimi di consumo del cinema, una bella lode la meritano. Ma sembra esserci anche qualcos’altro, qualcosa di nuovo venuto alla luce negli ultimissimi anni, che ha fatto venir meno tutte le cautele che di solito accompagnano la semplice presentazione del programma di un festival, con i film dunque ancora da vedere: ed è forse un nuovo amore rifiorito per Venezia ai danni del diretto concorrente Cannes, accanto a un possibile segno dei tempi.

Gli americani, per esempio, guardano ormai più alla Laguna che alla Croisette. Venezia di recente ha messo a segno un paio di colpi da maestro: leoni d’oro e titoli fuori concorso a stelle e strisce che qualche mese dopo sono entrati nelle cinquine degli Oscar fino ad accaparrarsi le ambite statuette, film che grazie anche a Venezia sono diventati campioni d’incassi in Europa e altrove: La forma dell’acqua, Tre manifesti a Ebbings-Missouri, La la land, Gravity, per dire solo di alcuni. Premonizioni lagunari che hanno fatto crescere il prestigio e il potere della Mostra del cinema. I film lanciati qui hanno davanti autunno e inverno, e sono in grado di tornare a febbraio in occasione, appunto degli Oscar. Cannes è invece alla vigilia dell’estate, troppo lontana, il pubblico ormai dimentica in fretta.
E c’è poi l’affare Netflix, la potente società che produce film destinati alla visione in tv. Cannes quest’anno ha messo come condizione che le pellicole avessero una distribuzione anche nelle sale e ha bandito dal concorso i suoi film. E per tutta risposta Netflix li ha ritirati tutti dal festival. Una battaglia persa: anziché consensi e solidarietà per questo lodevole anche se non del tutto disinteressato tentativo di salvare in qualche modo la “centralità” della sala cinematografica, la Croisette si è attirata strane forme di antipatia, come se volesse fare la snob e la prima della classe, la sua posizione agli occhi di molti festivalieri delle nuove generazioni è apparsa vecchia, antiquata, uno steccato senza giustificazione. Ed ecco la risposta di Venezia: nel programma figurano 5 titoli Netflix. Una presa d’atto, in tutta fretta, della nuova forma di consumo del cinema, Tv, telefonini… E’ la tecnologia, il mondo nuovo, bellezza. Del resto, oggi anche per valutare un film è sufficiente un “mi piace”.
E così, dunque, anche il programma di Venezia 75… mi piace.
In effetti va dato atto al direttore Barbera che ce l’ha messa tutta per farsi piacere, perché ha costruito un programma che, beninteso, solo sulla carta, può lasciare tutti soddisfatti. C’è il cinema di impegno, quello di genere, la commedia più o meno amara, il western, la ricerca di nuovi linguaggi, l’intrattenimento, l’horror, il gusto raffinato e quello commerciale.
Il film di apertura, per esempio. Quale scelta migliore di quella di First Man, che rievoca il primo sbarco sulla luna di Amstrong, 20 luglio 1969? Tanto più che tra un po’ si celebra il cinquantenario e il film arriva puntuale come un cronometro, l’interprete è Ryan Gosling, e il regista è Damien Chazelle, Leone d’oro e poi Oscar per La la land. Produzione americana, va da sé. E i film a stelle e strisce in concorso sono ben 4 su 21, e per altri 4 gli Stati Uniti sono in coproduzione; e ancora, tra fuori concorso e altre sezioni altri 9 film portano la bandiera americana, da sola o con altri paesi. Più di così cosa può fare un festival!
Non dimentico comunque di essere italiano, Barbera nel concorso ha piazzato anche 3 titoli tricolori: Capri-revolution, di Mario Martone, che evoca quella “comune” ante litteram formatasi nell’isola sul far degli anni ’10 del ‘900 con tanti artisti europei; Suspiria, di Luca Guadagnino, ancora fresco del successo di Chiamami col mio nome, rifacimento del celebre film di Dario Argento, produzione internazionale con Dakota Johnson e Tilda Swinton, quest’ultima per buona parte del film, dicono, irriconoscibile; e Wat you gonna do when the world’s on fire?, di Roberto Minervini, che ricostruisce gli scontri razziali di Baton Rouge, in America, nel 2016. Molti gli italiani anche nelle altre sezioni. Tra gli altri, Saverio Costanzo con L’amica geniale, tratto dall’opera della “misteriosa” scrittrice Elena Ferrante. Roberto Andò con Una storia senza nome, in Sicilia, il furto di un Caravaggio a Palermo, interpreti Micaela Ramazzotti e Laura Morante. Valeria Bruni tedeschi con I villeggianti, che mette in scena la sua rinomata famiglia, con Valeria Golino, Riccardo Scamarcio, sua madre, la nonna e i domestici di casa Bruni Tedeschi. Non manca l’impegno civile con alcuni film come Sulla mia pelle, di Alessio Cremonini, con Alessandro Borghi sul caso Cucchi.
E dagli altri paesi e continenti – ben rappresentata l’Europa vecchia e nuova, e poi l’America del sud con Argentina, Messico, Brasile, l’estremo oriente con Cina e Giappone, totalmente assente l’Africa – film di genere ma d’autore, assicura Barbera, cinema radicale e cinema popolare. Ed ecco allora Lady Gaga interprete di A star is born, di Bradley Cooper; i fratelli Coen con The Ballad of Buster Scruggs, western in 6 episodi; Alfonso Cuaron, l’autore di Gravity, con Roma; il francese Jacques Audiard, qui sotto bandiera americana, con il western The sisters Brothers, con Joaquin Phoenix; l’americano Julian Schnabel con A eternity’s gate, su Van Gogh, interprete Willem Dafoe; Emir Kusturica con un documentario sul leader uruguaiano  Pepe Mujica;  l’inglese Mike Leigh con Peterloo, dedicato alla carneficina di manifestanti inglesi avvenuta nel 1819; l’israeliano Amos Gitai con A tranway in Gerusalem, che torna sul suo tema preferito, la coesistenza tra palestinesi ed ebrei; il venerato cinese Zang Yimou con Shadow, nella Cina feudale due famiglie in lotta; il francese Olivier Assayas con Double vies, sulla rivoluzione digitale che governa la nostra vita; il greco Yorgos Lanthimos, con The favourite, dedicato ad Anna d’Inghilterra, con Emma Stone, Rachel Weitz; la versione lunga di The tree of life, di Terence Malick, palma d’oro a Cannes nel 2011, con Sean Penn, Brad Pitt, Jessica Chastain. C’è una sola regista donna in concorso, l’australiana Jennifer Kent, con il film The Nightingale, ambientato nella Tasmania dell’ottocento: la regista aveva esordito 2 anni fa al festival di Torino. Tra le tante altre cose, c’è anche un omaggio a Orson Welles: dopo 40 anni di attesa, è stato ricostruito il suo film The other side of the wind. Due i Leoni doro alla carriera. Vanessa Redgrave e David Cronenberg. La giuria è presieduta da Guilermo del Toro, Leone d’oro l’anno scorso con La forma dell’acqua.
Ecco, dunque, Venezia 75 sulla carta. Tanti bei nomi, tanti premi Oscar ospiti, tante star, tanti film di ogni genere. Il festival della Laguna progressivamente e ormai definitivamente è cambiato. Si direbbe che non cerca più di distinguersi, e si omologa: del resto, perché dovrebbe? Anche per Venezia vale la discussa equazione comodamente utilizzata in altri ambiti collaterali al cinema: il pubblico, i giornali, le Tv, il mare magnum dei siti on line, i blog, vogliono questo e dunque questo gli si dà… La Mostra, fatte le debite proporzioni e i doverosi distinguo – a cominciare dalle risorse, 10-11 milioni per la Laguna, 20-22 per la Croisette – vuole diventare un po’ come Cannes. Nel bene? Nel male? Chissà. Una cosa è certa: i registi hanno capito che bisogna recuperare il contatto con il pubblico attraverso codici condivisi, dice il direttore Barbera, E lui li ha seguiti. O, forse, loro hanno seguito lui.
Nino Battaglia
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