Tanti divi per la gioia dei loro fan che si accalcano davanti al palazzo del cinema aspettandoli per ore, nel verdetto della giuria, nei risultati di pubblico, 200 mila presenze, un record, con incrementi che vanno dal 10 al 20 per cento rispetto all’anno scorso e a due anni fa. La Mostra della Laguna è ormai in grado a pieno titolo di fare concorrenza a quello ritenuto il primo nel mondo, il luccicante Cannes che tuttavia gode del doppio di finanziamenti rispetto a Venezia.
Tutto bene dunque, sul festival è calato un consenso vicino all’unanimità “bulgara” che può perfino disorientare chi qua e là vede qualche neo, e non ne mancano, e nutre qualche riserva. Chissà, se mancano critiche virulente sarà perché questa edizione non ne merita, ed è forse il motivo più vicino alla realtà, o perché ormai anche le cose più indigeste vengono assimilate alla velocità di un fulmine, grazie ma sarebbe meglio dire a causa di taluni cosiddetti “social” e giovani cinefili dell’ultimora che gridano più forte e dettano la linea.
Il verdetto della giuria, che le voci dicono divisa su tutto o quasi ed è forse andata avanti con votazioni a colpi di maggioranze e minoranze, è quasi tutto condivisibile e rispecchia un certo comune sentire che si è respirato al Lido. La presidente della giuria, l’attrice-regista argentina Lucrezia Martel, protagonista dello scandaloso caso Polanski, affiancato da altri esperti tra i quali anche il regista Paolo Virzì, tutto questo lo ha chiamato democrazia. E magari ha ragione.
Il Leone d’oro a Joker, dell’americano Tod Phillips, il nemico giurato di Batman emarginato in cerca di riscatto, con giovani carichi di rabbia e di giustificato risentimento, mette insieme lo spettacolo di gran pregio con il cinema d’autore, il binario sul quale si muove da sempre il direttore Alberto Barbera, che talvolta può anche sembrare sospetto di ecumenismo, un colpo al cerchio e uno alla botte, evitando di sbilanciarsi troppo, impegno si’, ma anche… Joker è stato apprezzato dalla giuria, dai giornalisti e dal pubblico. Un film che merita dunque il massimo riconoscimento del festival.
Anche il secondo premio, che poteva essere il primo – un ex aequo sarebbe stato più che giustificato – è da approvare in pieno: il Gran premio speciale della giuria, che spesso nei festival indica il vincitore morale, per J’accuse, l’ufficiale e la spia, di Roman Polanski, è una scelta perfetta. Il “caso Dreyfus” riportato all’attenzione dei nostri giorni, con l’antisemitismo diffuso nella Francia degli ultimi anni dell’800 e in primi del ‘900, lo strapotere delle caste militari, la giustizia piegata alle ragioni di Stato quando non a ragioni private, la determinazione e il coraggio di un militare che non si adegua costringendo le istituzioni che incarnano lo Stato a rivedere il processo a la condanna per spionaggio del capitano ebreo Dreyfus. Senza dimenticare il ruolo, la funzione degli intellettuali e della libera informazione, con Emile Zola che scrive il famoso J’accuse con nomi e cognomi e il quotidiano L’aurore che lo pubblica.
Nonostante faccia parte della Storia a tutti nota, piace pensare che Polanski abbia sentito l’urgenza, l’attualità di quella vicenda in tutte le sue pieghe – a cominciare da se stesso, braccato dalla giustizia americana per una condanna definitiva di una trentina di anni fa per violenza sessuale, sempre da lui negata, nei confronti di una minorenne -, compresi i doveri della libera stampa e dei liberi pensatori, oggi un po’ dormienti, fatta salva qualche rara eccezione d’oltreoceano peraltro non sempre pronta alla denuncia equidistante e senza partito preso.
E proprio questa Venezia si direbbe di annata eccezionale ha dovuto fare i conti con un “caso Polanski”, ad opera di un membro della giuria, addirittura presidente, l’argentina Martel che si è esibita in una gaffe nel suo genere storica contro la presenza del film del regista condannato per stupro – lui assente dalla Mostra perché notoriamente non può muoversi dalla Francia che lo ospita, pena l’arresto immediato e una più che possibile estradizione -. Forse in altri tempi con altri soggetti, e con un’altra libera stampa… sarebbe stato uno scandalo planetario, la Martel si sarebbe potuta dimettere e in precedenza rifiutare – in questi casi si dice declinare – l’invito a far parte della giuria, con l’aggravante di presiederla. Ma subito dopo la presidente si è giustificata, ha un po’ ritrattato, e il caso come d’incanto si è chiuso, nessuno, forse per una planetaria carità di patria, ha chiesto la sua testa.
E il film di Polanski è stato premiato, magari anche con il consenso della Martel, che ha tenuto a precisare che in giuria si è parlato esclusivamente del valore dell’opera e non della vita del regista. Misteri del festival di Venezia di questi iniziali anni tremila.
Tra i tanti possibili pretendenti, uno dei migliori attori è stato proprio il premiato Luca Martinelli, interprete eccellente degno di un Mastroianni del film Martin Eden, che il regista campano Pietro Marcello, sconosciuto ai più ma molto apprezzato dalla critica, ha tratto con molte libertà, ma non quella di farne un’opera compiuta che vive di luce propria, da Jack London. L’attore così dopo ottime interpretazioni tra le quali Non essere cattivo, del compianto Claudio Caligari, scomparso prematuramente, e Lo chiamavano Jeeg Robot, riceve un dovuto riconoscimento delle sue doti di interprete, capace anche di recitare dialoghi “letterari” senza far ridere, come accade spesso con altri attori italiani. Un premio più che meritato, all’attore ma non al film, discontinuo, con molti momenti di alta poesia come è nello stile del regista ma non ben amalgamati e giustificati nell’insieme. La vicenda di quest’uomo, portata dal regista dalla California a Napoli, e in un’Italia lunga un secolo, che trova il riscatto sociale nella cultura, diventando scrittore di successo da marinaio analfabeta che era e precipitando poi nella perdizione di sé, risulta molto edulcorata e talvolta incoerente, priva di una solidità che la accompagni dall’inizio alla fine. Marcello, da regista indipendente in tutti i sensi ora entrato nel cinema “istituzionale”, ha fatto e può fare di meglio, a cominciare dal suo primo film, La bocca del lupo, opera tra finzione e documentario, che dieci anni fa aveva vinto, finora unico italiano, il primo premio del festival di Torino.
Ben speso anche il premio per la migliore attrice, la francese di non lontanissime origini italiane Ariane Ascaride, per il bel film Gloria Mundi, del suo compagno di vita Robert Guediguian, che è considerato il Ken Loach della Francia, uno degli ultimi registi comunisti. Un film tra la povertà di Marsiglia, gente che lotta per sopravvivere, per arrivare non a fine mese ma dalla colazione del mattino alla cena della sera.
Da segnalare anche un Premio speciale della giuria per La mafia non è più quella di una volta, di Franco Maresco, che nel suo stile grottesco elaborato fin dai tempi di “cinico Tv” col sodale, a suo tempo, Daniele Ciprì, dipinge una società povera, o meglio povera società, in cui la mafia può pescare a piene mani.
E ancora di rilievo, tra gli altri film segnalati dalla giuria, il Premio per la migliore regia allo svedese Roy Anderson col film Sull’infinito, surreale, metafisico, come tanti quadri con personaggi viventi, percorso da una dolente ironia sui rapporti umani del nostro vivere contemporaneo. E’ l’altro cinema, quello che può fare a meno degli effetti speciali, delle musiche roboanti fuori posto, delle famigliole con due bambini e un immancabile cane simpatico e mai cattivo o addirittura feroce.
E’ il cinema del festival di Venezia e del direttore Barbera che offre un ventaglio di proposte a trecentosessantagradi, inclusivo, come si direbbe oggi, forse fin troppo. Il festival che si avvale di film in concorso prodotti da Netflix, la società che finanzia film destinati esclusivamente alla trasmissione televisiva, previo naturalmente abbonamento, promossi da Venezia mentre Cannes continua la sua battaglia ormai solitaria escludendoli dalla competizione se non destinati anche alle sale. Nessuno, o quasi, a Venezia ha avuto da ridire, solo qualche timido fischio durante i titoli di testa contrastato da robusti applausi. Ormai la polemica è archiviata, acqua passata. Dunque si promuovono film che non potremo vedere al cinema: come se un cardinale, o lo stesso pontefice, se ne venisse fuori dicendo: beh, potete anche non andare in chiesa, la messa potete comodamente seguirla da casa, alla radio o in Tv. Solo un esempio seppure, un po’ crudo, ma forse efficace, comunque niente di blasfemo. Così Venezia ha ceduto definitivamente. Peccato.
Nino Battaglia