Fiësca Verd, lo “Spicchio Verde” di Torino

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La crescente diffusione di esperienze di agricoltura e micro-agricoltura urbana testimoniano un sempre maggiore interesse per i temi dell’autoproduzione e della sostenibilità dell’ecosistema-città. La redazione di Eta Beta Magazine ha incontrato una delle realtà che a Torino si occupa di agricoltura sociale urbana, per lasciare che ad approfondire queste esperienze interessanti e sfaccettate sia proprio chi ha le mani in… terra.
Enrico, che si è fatto per noi portavoce di Fiësca Verd, si racconta così:

“Siamo un’associazione di promozione sociale, Fiësca Verd, che significa spicchio verde in piemontese. L’idea nasce dal desiderio di un gruppo di amici di dedicarsi a un progetto di vita e lavoro che potesse lasciare un’impronta sul territorio. Abbiamo competenze diverse, siamo un educatore, un archeologo, un agrotecnico e una tecnologa alimentare: siamo partiti dalle nostre competenze, che poi sono anche le nostre passioni, il sociale e la natura. Abbiamo girato tutto il Piemonte alla scoperta di varie realtà di agricoltura sociale per valutare quale potesse essere un modello applicabile alla realtà di Torino, provando a strutturare una sperimentazione di rigenerazione urbana, sia dal punto di vista sociale che ambientale, che unisse l’orticoltura e il giardinaggio al community empowerment. Trovare e riprogettare spazi verdi, o anche non, in degrado e poco valorizzati, tendenzialmente di piccole dimensioni e incapsulati nei contesti residenziali, per riprogettarli partendo dal basso, coinvolgendo la comunità locale e avviando dei percorsi di orto, impianto di frutteti, bancali per coltivazione, aiuole per le piante mellifere.”

Siete nati nel 2020, appena prima della pandemia, e al momento gestite tre orti urbani (Raffinerie Sociali nel territorio della Circoscrizione 4 a Torino, Bunker presso la Circoscrizione 6, Baraca con sede nella Circoscrizione 1), cosa ha significato questo?

“La pandemia ha fatto riscoprire alle persone il valore di stare all’aperto, di riconnettersi alla natura e da un certo punto di vista siamo stati la risposta giusta al momento giusto. Non sempre e non tutti hanno la possibilità di andare in campagna o in montagna e l’opportunità di avvicinarsi alla natura, di scoprire l’agricoltura biologica e la preservazione ambientale all’interno del contesto urbano è una risorsa importante. Raffinerie Sociali è il primo luogo da cui siamo partiti, è uno spazio circoscrizionale, dunque pubblico, dato in gestione a un gruppo di associazioni che però non avevano le possibilità e le competenze per occuparsi dell’area esterna, che era di fatto abbandonata. Siamo allora partiti a cercare fondi e a riprogettare il “giardino” per trasformarlo, e questo è un po’ il modello che applichiamo ovunque.”

Quindi gli orti urbani sono spazi nei quali è possibile coltivare singolarmente, in condivisione o in gruppo e ogni volontario ha il suo appezzamento?

“Gli orti comunali funzionano su graduatoria, in base all’ISEE e una serie di altre caratteristiche: questo le rende piuttosto rigide e per alcune categorie è più difficile accedere. Alcune realtà di associazione, come Orti Generali di Mirafiori, hanno spazi più ampi e danno lotti in concessione ai privati, sempre dietro pagamento di una somma simbolica, ma cercando di intercettare l’interesse in persone per cui magari è più complesso inserirsi nelle graduatorie comunali, proprio per offrire un servizio diverso. Per esempio ci sono agevolazioni per i giovani o le persone fragili. Nel caso di Fiësca Verd, operando su spazi residuali e quindi più piccoli, non dappertutto abbiamo la possibilità di dedicare dei “lotti” a coltivazione “privata”. Quando lo facciamo, chiediamo in cambio collaborazione alle attività e alla gestione: dalla pulizia, alla cura delle galline, dalla potatura, all’occuparsi degli orti condivisi in assenza degli operatori…

In ogni caso in ciascuno di essi il cuore è l’orto collettivo. È un orto coltivato in comunità, guidati da uno dei nostri operatori, in cui inseriamo all’interno del gruppo di volontariato anche soggetti fragili. In ogni orto le attività si svolgono un paio di volte a settimana, con l’obiettivo sì di coltivare, di avvicinarsi alla natura, ma soprattutto di creare dei momenti di condivisione all’interno dei gruppi, che sono sempre assolutamente eterogenei per profili dei partecipanti. Organizziamo anche progetti con scuole, centri diurni, comunità… Questo aspetto, insieme alla partecipazione a bandi per l’assegnazione di fondi, è ciò che garantisce la sostenibilità economica del progetto.”

Tutto questo come si coniuga con un’idea più sostenibile e responsabile dell’agricoltura e della produzione e come può intercettare e rispondere ai bisogni sociali di una comunità?

“Il nostro lavoro ha una forte componente sociale e di economia circolare, cerchiamo di coinvolgere le persone e riutilizzare materiali già esistenti: alcuni ci portano i piantini che fanno in casa, aziende e associazioni ci regalano ad esempio i bancali un po’ rovinati o gli scarti alimentari, che utilizziamo per il compostaggio. Negli anni siamo riusciti a costruire una rete e una circolarità. Dopodiché abbiamo dei fornitori per tutti i materiali che non si possono reperire diversamente: terriccio, compost, fertilizzanti naturali… Anche per le piante che dobbiamo acquistare abbiamo aziende di agricoltura biologica a cui possiamo affidarci. Esiste poi la Rete OrMe che funge un po’ da collettore di informazioni.
Svogliamo attività sia con volontari del quartiere che desiderano fare attività nella natura, sia inserendo persone con vulnerabilità all’interno di percorsi di avviamento al lavoro, di formazione o socializzanti. A due anni dall’avvio abbiamo notato che le persone che si inseriscono per più tempo nelle nostre attività intessono relazioni che vanno oltre l’attività in sé, e quello è il successo maggiore per noi. La relazione, l’autonomia e l’autosufficienza di quella piccola comunità che sei andato a creare va oltre te, la tua presenza è generativa, non è solo il singolo progetto che inizia e finisce. La forza dello sfruttare un’attività pratica per creare community empowerment è la capacità trasversale di entrare all’interno delle relazioni e costruirne delle nuove.”

Il motto di Fiësca Verd è “Coltivare un Orto. Vivere un quartiere. Creare una comunità.”: quale è stata la ricezione da parte del tessuto sociale locale?

“Questo è uno degli aspetti critici, non tanto nel senso di ostacolo, quanto piuttosto di un elemento che deve necessariamente essere tenuto bene a mente soprattutto nella progettazione. Noi siamo arrivati qui, abbiamo trovato una comunità frammentata, in cui addirittura c’erano come dei piccoli feudi, gestiti come terreni di proprietà quando di fatto si trattava di uno spazio pubblico. Da un lato ovviamente c’è stata diffidenza da chi era qua installato e utilizzava il luogo a proprio piacimento, dall’altro c’è stato un riscontro molto positivo da parte di tutto il resto della comunità, per cui questo posto era di fatto inesistente, che ha finalmente visto la valorizzazione di questo spazio. Per costruire relazioni e generare cambiamenti stabili ci vuole molto tempo. Per questo i progetti di breve respiro, di sei mesi, un anno, hanno poco senso. Per essere efficaci sul territorio servono programmazioni di lungo periodo e continuità. Soprattutto all’inizio, le persone devono trovarti lì, così che diventi un punto di riferimento. Solo dopo, quando la tua presenza diventa stabile, e le relazioni tra le persone che vengono qui diventano anch’esse stabili, si genera un cambiamento.”

Programmazione di lungo periodo e stabilità: è in queste parole che possono materializzarsi le principali difficoltà incontrate da Fiësca Verd, come da una gran parte del mondo associativo?

L’associazione, in quanto tale, non produce utili. Uno dei più grandi punti critici, che penso sia generale dell’associazionismo, sono proprio i soldi. Ma non nel senso stretto di averli in tasca, quanto della programmabilità. Se un’azienda riesce a prevedere le proprie entrate, e quindi a programmare attività nell’arco di diversi anni, nell’associazionismo se riesci a guardare da qui a un anno sapendo che soldi avrai è già tanto: è difficilissimo quindi pensare a progetti di lungo periodo sul territorio, anche i bandi europei hanno un orizzonte di massimo 2-3 anni. È limitante anche per il tipo attività che puoi andare a immaginare: la natura ha i suoi tempi, a volte lunghi, e non è una decisione che si prende a cuor leggero quella di “piantare un ulivo senza sapere se lo vedrai fiorire”. Lo stesso si può dire delle persone: un percorso di accompagnamento per dei ragazzi disabili non può essere immaginato su sei mesi o un anno, ma almeno su 4-5 anni. Noi molto ottimisticamente quando prendiamo in gestione uno spazio facciamo dei piani su 5-10 anni, ma senza sapere se i fondi ci saranno e quanti saranno. Però non avrebbe senso per noi fare diversamente.”

Benessere e realizzazione per il singolo, socializzazione e costruzione di un senso di comunità, ma può un orto urbano riequilibrare un ecosistema come quello di Torino?

“Orto urbano per noi è un community garden, ovvero un’area verde all’interno di zone residenziali in cui le persone possano trovare spazi aggregativi, verdi, sani e possano avvicinarsi alla natura e toccare con mano cosa significa attuare la sostenibilità ambientale attraverso piccole azioni G-local, pensate globali ma agite locali. Un esempio è l’orto in cassetta: lo faccio, me lo porto a casa, poi quando vado al supermercato e vedo la verdura biologica so cosa vuol dire bio e magari la compro, anche se costa un po’ di più. Orto urbano per noi dunque è luogo aggregativo, di inclusione, di sperimentazione di azioni di sostenibilità.  

Torino, come molte grandi città, è caratterizzata da un certo grado di dissesto dell’ecosistema: non solo per la qualità dell’aria, ma per le isole di calore, l’impermeabilizzazione del suolo, la gestione dei rifiuti, delle acque reflue. Il giardino non è l’elisir magico che abbatte i PM10 o le isole di calore. Ma acquista significato se lo vediamo all’interno di un continuum di sviluppo e di rinaturalizzazione del contesto urbano, che va in parallelo a un aumento della coscienza ambientale non solo del cittadino, ma delle istituzioni, dei fondi di investimento. Nel singolo caso l’aiuola o l’orto che costruiamo non ha un effetto immediato, ma è l’insieme dei meccanismi visti nel loro complesso che ha un potenziale di crescita.  Letto in quest’ottica l’orto urbano, e la rigenerazione urbana in generale, hanno un grandissimo impatto nella creazione di oasi verdi all’interno della città, come piccole macchie verdi che pian piano crescono e si uniscono. Se tu ti chiudi nel tuo orto, fai l’orto più bello del mondo, ma non hai legami con il contesto, stai solo facendo un bell’orto. Ma se tu inizi a dialogare con le istituzioni, con le altre realtà, e a costruire un percorso armonico, tutto prende senso, e magari in 5 anni non ne vedremo i risultati, ma tra dieci potremo guardarci indietro e riconoscere che sono stati fatti dei grossi passi avanti.”

E guardando avanti, come vedete Fiësca Verd nel medio-lungo periodo?

“Almeno un paio di volte l’anno ci incontriamo e facciamo il gioco “come ti vedi tra cinque anni?”: è un momento molto stimolante, la fase preliminare della progettazione. Come ci vediamo, non lo so dire, di certo ci auguriamo di proseguire il lavoro che stiamo facendo riuscendo a dargli un respiro temporale e di programmabilità maggiore. Ci piacerebbe realizzare dei progetti che possano dare forza alla partecipazione attiva dei cittadini in modo che la nostra presenza fisica sia sempre meno necessaria negli spazi che gestiamo, così da poter farne nascere di nuovi. Ci piacerebbe anche accompagnare altre realtà, altre associazioni: ovviamente sarebbe impossibile per noi essere attivi su molti territori diversi, stiamo allora lavorando per creare una rete anche extraregionale per provare a trasmettere la nostra esperienza e il modello che abbiamo costruito. Ci piacerebbe poi crescere anche nella direzione dell’economia circolare, quindi lavorare su progetti che vadano ad allungare la vita dei prodotti o a creare nuove circolarità. La compostiera è una prima sperimentazione, ma in generale vorremmo creare dei progetti sempre di community engagement, in un circolo positivo di recupero degli spazi e non solo.”

Per saperne di più: visita il sito di Fiësca Verd.

Redazione

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