L’ultima parola nella serata di chiusura della Mostra del cinema di Venezia spetta sempre al Presidente della Biennale, per il saluto finale. Ma quella pronunciata da Roberto Cicutto, al vertice dell’istituzione culturale dall’anno scorso, ultima parola anche in senso letterale, così semplice e comune tra noi e tra le più note in tutto il mondo nella nostra lingua, è sembrata avere un senso particolare in questo tempo di timori e di disagi che ci disorienta: arrivederci, ha detto Cicutto.
Certo, arrivederci all’anno prossimo, con speranza, determinazione e coraggio, come quest’anno e come era accaduto l’anno scorso, con tutte le rigide regole, le restrizioni e le precauzioni che il virus impone. E così la Mostra del cinema di Venezia 78, grazie ad un’organizzazione teutonica eppure pronta ai necessari cambiamenti dell’ultimora che non si credeva possibile nelle nostre contrade, ha di nuovo vinto la sua scommessa contro l’epidemia.
Ed è andata bene, anche e soprattutto anche per gli altri aspetti, essenziali, che determinano la buona riuscita di un festival: a giudizio vicino all’unanimità sia tra gli addetti ai lavori che tra il pubblico, qualità alta dei film in concorso e ottimi lavori tra gli altri 100 titoli della rassegna. E il direttore Alberto Barbera ha più di un motivo di soddisfazione per l’accoglienza che spettatori e critici hanno riservato al suo programma: è stata un’annata cinematografica eccezionale, ha detto.
Anche le decisioni della giuria presieduta dal regista sud coreano Bong Joon Ho hanno soddisfatto la stragrande maggioranza di coloro che hanno seguito il festival, a parte qualche riserva, inevitabile come sempre. Il film vincitore del Leone d’oro, L’événement, della giovane regista francese Audrey Diwan, di origini libanesi, con la sua vicenda di una studentessa universitaria che deve affrontare il dramma dell’aborto, clandestino in una Francia del ’63 in cui l’interruzione della gravidanza è illegale e punita dalle leggi, è certamente sintonizzato con il tempo d’oggi: la lbera scelta messa in discussione anche quando è consentita, paesi che cercano di tornare indietro – di questi giorni il caso del Texas, con Biden che con le buone o con la forza delle leggi cerca di opporsi alle decisioni di quello Stato -, altri che negano questo diritto delle donne, e degli uomini.
Ma il campo battuto dal film Leone d’oro si può allargare al tempa più generale dei diritti civili negati, preclusi dalle leggi o in altre forme surrettizie e subdole, diritti individuali e delle comunità in Paesi progrediti e di un certo benessere in cui si assiste a sottili derive autoritarie. L’aborto e in filigrana altro, dunque, nel film vincitore.
L’Italia è uscita bene da questa edizione di Venezia: il Gran premio speciale della giuria per Sorrentino con E’ stata la mano di Dio, che si è guadagnato anche il Premio Mastroianni per gli attori emergenti a Filippo Scotti; il Premio speciale della giuria per Frammartino con Il buco, ripagano la folta presenza tricolore con 5 film in concorso su 19. Non è un mistero che l’Italia puntava al Leone d’oro, ma è andta bene così. C’è qualche rammarico per Qui rido io di Mario Martone completamente ignorato dalla giuria e per Toni Servillo istrionico protagonista del film e con un importante ruolo anche nella pellicola di Sorrentino – senza dimenticare il drammatico duetto con Silvio Orlando in Ariaferma di Leonardo Di Costanzo fuori concorso.
Tutti riconosciuti meritevoli di qualche menzione, ma per premiarli forse non sarebbero bastae due e più edizioni della Mostra, a meno di non rischiare l’autarchia in un programma che peraltro molti hanno ritenuto troppo ingombrante di presenza tricolore.
Condivise dai più anche le altre scelte della giuria: Penelope Cruz migliore attrice nel film di Almodovar Madres Paralelas, confronto tra due madri molto diverse che stanno per partorire – e il premio è naturalmente anche per il regista spagnolo; John Arcilla migliore attore nel filippino On the job: the missing 8, di Erik Matti, denuncia di malaffare e corruzione nella politica; Jane Campion Leone d’argento per la regia con il western The power of the dog; Maggie Gyllenhaal, attrice che esordisce nella regia, per la sceneggiatura di The lost daugther, tratto da un romanzo di Elena Ferrante.
Ora la parola passa alle case di distribuzione e agli esercenti delle sale, rigori dell’epidemia permettendo. Intanto Venezia con pareri largamente condivisi ha fatto la sua parte nel promuovere buon cinema e spesso ottimo anche al di là dei premi e nell’avere ospitato tanti divi da far impallidire Cannes. E la parola passa anche al pubblico che deve riscoprire le sale cinematografiche, dopo essere stato costretto ad accontentarsi dello schermo televisivo.
E allora arrivederci, al cinema.
Nino Battaglia