Un bel programma e qualche nota dolente per la 35eima edizione del Torino film festival (24 novembre-2 dicembre nelle sale Massimo e Reposi). A un cartellone che almeno a prima vista promette belle occasioni di buon cinema, fanno riscontro infatti alcune cose importanti che sono venute meno: a cominciare da un pesante taglio alle risorse di ben 250 mila euro, che così scendono ad appena 2 milioni e 50 mila euro. Il Comune ha ridotto i fondi per tutto il settore cultura, ma non per tutti gli enti, e il Museo del cinema, tra le istituzioni che hanno subito tagli, si è “adeguato”: 12 per cento in meno anche al Tff.
Pur in queste condizioni il direttore Emanuela Martini ha fatto miracoli mettendo insieme un programma di tutto rispetto, con ospiti che dovrebbero richiamare anche un po’ di spettatori che non fanno parte della ristretta cerchia dei cinefili: 169 titoli, qualche decina in meno dell’anno scorso, 15 in concorso con 2 italiani, e tra gli invitati Nanni Moretti, Asia Argento, Massimo Ranieri, il musicista Pino Donaggio, e per chi frequenta le sale cinematografiche con una certa assiduità, il regista inglese Richard Loncraine e il cileno Pablo Larrain.
I 15 concorrenti della vetrina principale rappresentano tutto il mondo, o quasi, e portano a Torino le nuove tendenze e gli stili più innovativi che si affacciano al cinema di ogni latitudini: questa è la caratteristica, più unica che rara, propria del Tff: con mezza Europa – Italia, Francia e Inghilterra in primo piano – ci sono nord e sud America, Cina, Giappone. Promettono bene i due tricolori esordienti o poco più, come del resto tutto gli altri: Blue Kids, di Andrea Tagliaferri, e Lorello e Brunello, documentario di Jacopo Quadri. Nei film, temi di sempre e altri di stretta attualità. Dopo un paio di anni, sotto la lente dei giovani registi torna il lavoro, la difficoltà di trovare un’occupazione, fabbriche che chiudono, la globalizzazione talvolta selvaggia, la grande Storia, i migranti, accanto a vicende familiari, rapporti difficili tra le mura domestiche, il complesso passaggio all’età adulta.
Tra gli ospiti, Asia Argento, ancora calda di scandalo Weinstein, ma era stata invitata in tempi non sospetti, nel marzo scorso, è il “direttore ospite”: ha scelto 5 film che raccontano la profonda America, quella degli Stati del sud che ha votato Trump, dice l’attrice, con i suoi abitanti legati alla “cintura della Bibbia”, i protestanti della chiesa evangelica.
Nanni Moretti torna a Torino per ricordare il grande regista veneto prematuramente scomparso Carlo Mazzacurati: Moretti era stato produttore del suo primo film, Notte Italiana, ora restaurato.
Ospite anche Claudio Magris per il film di Elisabetta Sgarbi L’altrove più vicino, poesia e ricordi dalla vicina Slovenia.
Il cileno Pablo Larrain, che nel 2008 aveva vinto il festival di Torino con il suo secondo film, Tony Manero, è il presidente della giuria. Dopo quel premio torinese, Larrain è diventato importante e famoso, ha fatto ottimi film di successo sul suo paese, il Cile oppresso dalla dittatura di Pinochet, e di recente ha firmato Jackie, Jacqueline Kennedy nei giorni che seguirono l’uccisione del marito presidente degli Stati Uniti.
Premio alla carriera al musicista Pino Donaggio, autore di tante colonne sonore di film firmati da prestigiosi registi, tra i quali anche Brian De Palma. E proprio a De Palma è dedicata la retrospettiva, l’opera completa dell’acclamato regista americano. Lui è impegnato nel montaggio del suo ultimo film, Domino, e Emanuela Martini si dice certa che non verrà a Torino, anche perché, aggiunge, il direttore è di una timidezza assoluta, e si mostra in pubblico solo quando lo ritiene assolutamente indispensabile.
Tra i torinesi c’è Davide Ferrario, che con Cento anni racconta la fatidica Caporetto e un secolo di storia italiana.
Tra le curiosità, The darkest hour, L’ora più buia, ritratto di Churchill davanti alla guerra ai nazisti appena nominato primo ministro nel 1940; The Reagan show, divertente documentario sulla capacità comunicativa di Ronald Reagan; The death Stalin, che racconta che cosa fecero Krusciov, Molotov, Beria e gli altri dirigenti del Pcus quando trovarono Stalin morto, o morente, a terra nel suo studio; The disaster artist, di James Franco, che rievoca la “mitica” lavorazione di The room, di Tommy Wiseau, considerato uno dei più brutti film mai realizzati e il regista uno dei peggiori finora comparsi sulla scena del cinema. Giudizi e opinioni condivisi e acclarati: anche Wiseau ne è consapevole, ma non se ne cura. Anzi, la curiosità planetaria dei cinefili che vogliono rendersene conto, pare che gli abbia giovato molto, e se ne compiace.
Che cosa manca, dunque, a questa edizione del Tff, oltre ai preziosi 250 mila euro in meno. Il presidente del Museo, Laura Milani, si affretta a precisare che non si tratta di tagli, ma di economie. Cambia il nome, ma la sostanza è la stessa.
C’è la rinuncia al cinema Lux con le sue tre sale e quasi 600 posti. E non si tratta solo della perdita di una sede per le proiezioni, ma anche, e perfino soprattutto, del venir meno della vetrina più importante. Perché se il cuore del festival è tra via Verdi e via Montebello, la sala di Galleria San Federico animata dagli spettatori in attesa di entrare, dalle code e dai manifesti, per i tanti torinesi che non frequentano la rassegna, e per i turisti, è sempre stata la certificazione, almeno, dell’esistenza del festival.
All’appello manca anche l’auditorium del Lingotto, sede per la serata inaugurale invidiabile per numero di posti, fino a 1.900. Quest’anno per l’inaugurazione il Museo ha scelto la Mole, dove potranno essere ammesse non più di un paio di centinaia di persone. Se la serata del Lingotto era divisa tra invitati e spettatori paganti, quella di quest’anno diventa esclusiva, un po’ per pochi intimi. Non è detto che l’inaugurazione al Lingotto fosse “necessaria”, eppure da anni rappresentava il momento di festa per l’apertura, un ritrovarsi tra pubblico e addetti ai lavori, che per il festival era come un’iniezione di fiducia, un voto augurale.
Dopo lo spettacolo di inaugurazione dentro la Mole, curato dalla regista Roberta Torre, che nel cartellone del festival presenta il suo film musical Riccardo va all’inferno, con Massimo Ranieri e Sonia Bergamasco, tutti si trasferiscono alla sala uno del cinema Massimo, 500 posti, per il film di apertura, la commedia agrodolce “Ricomincio da me”, dell’inglese Richard Loncraine, apprezzato regista eclettico anche autore di un memorabile Riccardo III.
E c’è ancora un altro taglio: il Premio Cabiria, che era destinato a un’attrice. Questo premio è vissuto per due sole edizioni e lo hanno ricevuto Valeria Golino e Alba Rorwacher. Nel suo genere, o nel suo piccolo, era anche un momento di visibilità per il festival, oltre a ricordare le origini torinesi del cinema italiano, quel film pietra miliare del cinema di sempre e di tutte le latitudini e il suo regista Giovanni Pastrone.
E’ venuto meno anche il Premio Langhe Roero e Monferrato, prima e ultima edizione l’anno scorso: 100 bottiglie di vini pregiati dei territori patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Lo aveva preso Paolo Sorrentino, associato alla “grande bellezza” di quei territori.
Un’edizione con una pesante cura dimagrante, dunque. Ma se a qualcuno viene in mente di pensare a un declino della manifestazione, a rassicurarlo ci pensa il presidente Laura Milani: no, non è così. Anzi, il numero uno del Museo del cinema per l’anno prossimo preannuncia per ora oscure novità: il festival prenderà nuove direzioni e dialogherà con altri ambiti. E magari si pensa anche di cambiare il direttore: il mandato di Emanuela Martini scade quest’anno. Potrebbe restare, ma lei è qui a Torino da una decina d’anni, prima di diventare per 4 anni numero uno, è stata vice di 3 direttori. Una lunga esperienza che si presta a tutte le possibilità, continuare o chiudere.
Dal giorno dopo la conclusione del Torino film festival, si vedrà.
Nino Battaglia
Per saperne di più: www.torinofilmfest.org