La giornata della memoria che si celebra ogni anno il 27 gennaio, deve essere, secondo me, non solo il ricordo della follia omicida nazista, scatenata in particolare contro gli ebrei, ma anche il monito perché il razzismo in tutte le sue forme non diventi mai più parte di un programma politico di governo.
Quest’anno voglio parlare dei “buoni”. Di quelli che furono non solo solidali, ma coraggiosi soccorritori degli ebrei perseguitati.
E per ricordarli, mi si perdonerà se porterò una testimonianza personale, diretta, di quanti si misero in gioco dopo l’8 settembre 1943, quando farlo poteva costare molto caro.
Di quei lontani fatti, in casa mia se ne parlava: mia madre e mio padre (non ancora sposati né conoscenti) avevano aderito entrambi alla Resistenza. Venivano da famiglie antifasciste, vere non quelle che si scoprirono tali il 26 aprile 1945, con i tedeschi in fuga e i repubblichini braccati e arrestati.
Mia madre (Anna Rosa Gallesio) fu una dirigente del Cln femminile torinese. Suo padre, sindacalista “bianco”, iscritto al Partito Popolare di don Sturzo, era stato duramente discriminato durante il regime fino a ridurgli la famiglia in miseria, controllato costantemente dalla polizia. Con mia madre operarono anche le mie zie.
Fu dunque “normale” che venisse “arruolata” nel campo partigiano e lo fu nella redazione del quotidiano torinese L’Italia dove lavorava. Così raccontò in un libro edito nel 2008 dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana per ricordare i giornalisti partigiani:
“Ho iniziato a fare la giornalista durante la guerra nella redazione torinese dell’Italia. Ero andata a sostituire mio padre, che per tanti anni non aveva potuto lavorare, perché era un noto antifascista. Il prof Arata (n.d.r il direttore) lo aveva chiamato a collaborare (n.d.r nel 1938). Ma lui si è ammalto e io sono andata a sostituirlo”.
In queste poche righe senza retorica, ci sono già alcune notizie, la prima: il vedersi discriminati fino a perdere il lavoro era il destino di quelli che non volevano piegarsi al regime. La seconda: mio nonno si “ammalò” di polmonite dopo una aggressione sotto casa da parte di fascisti che volevano vendicarsi del 25 luglio 1943 (caduta del fascismo). Era inverno, restò alcune ore svenuto in strada, prese una polmonite e morì. Aveva 58 anni.
La terza notizia è la risposta alla domanda: come mai un noto antifascista viene chiamato a collaborare a un giornale, dopo tanti anni di discriminazione?
Questa domanda si ricollega proprio alle leggi razziali. Ma prima facciamo un po’ di storia.
Precedute dal “Manifesto degli scienziati razzisti” (14 luglio 1938), sottoscritto da 180 scienziati e redatto dallo stesso Mussolini, e sostenute da una campagna di stampa massiccia, le leggi razziali in Italia uscirono a più riprese, a partire dal 5 settembre 1938, e furono immediatamente seguite dalle ordinanze applicative. Le prime ordinanze furono, i provvedimenti per la difesa della “razza” nella scuola italiana che esclusero studenti e professori ebrei da tutte le scuole del Regno.
Bisogna dire che l’antisemitismo non era nel programma originario del fascismo, al quale, anzi, larga parte degli ebrei italiani avevano aderito. Un nome fra tutti: quello di Margherita Sarfatti, già socialista come il duce, ambiziosa, colta e intelligente donna dell’alta borghesia milanese che era stata una fascista della prima ora, e una delle muse ispiratrici di Mussolini di cui fu l’amante fino al 1933.
Le leggi razziali, pur precedute da un progressivo avvicinamento del duce a Hitler, piombarono così sulla comunità ebraica italiana come un fulmine a ciel sereno.
Ma anche gran parte dell’opinione pubblica italiana fu sorpresa e incredula, influenzata dalla aperta ostilità della Chiesa Cattolica. Il papa Pio XI aveva dettato una linea precisa e le condannò anche in discorsi pubblici, come quello del 18 settembre 1938, due settimane dopo la loro emanazione in cui disse: “L’antisemitismo è un movimento al quale noi cristiani non possiamo affatto partecipare… spiritualmente noi siamo dei semiti”. Discorsi naturalmente taciuti dalla stampa italiana, pubblicati solo sull’Osservatore romano (spesso sequestrato nelle edicole) e sulla stampa estera. Anche alcuni alti gerarchi fascisti erano contrari, come Italo Balbo che ne parlò al Re, in visita agli inizi del 1937 in Libia, dove Balbo era governatore: “Io sono qui in Africa, ma mi arrivano certe notizie sugli ebrei. Non faremo certo l’imitazione dei tedeschi!…” disse a Vittorio Emanuele III. E quando fu approvato il “Patto d’acciaio” con la Germania nazista aveva detto a Mussolini e Ciano : “finirete tutti a fare i lustrascarpe di Hitler!”.
Rispondo dunque alla terza domanda: mio nonno fu chiamato a lavorare al quotidiano cattolico l’Italia proprio dopo le leggi razziali e la sempre più stretta alleanza dell’Italia fascista con Hitler. La Chiesa cattolica, che già aveva avuto forti dissapori con il regime nel 1931 (tentativo di abolizione dell’Azione cattolica) ne voleva prendere decisamente le distanze e radunava i vecchi “popolari” in vista del “dopo” Mussolini. In quei mesi ci fu infatti un complotto internazionale, noto come “Orchestra nera”, di cui il Vaticano era informato, per far fuori Hitler e di conseguenza far cadere il duce, ed evitare la guerra. Tentativo poi messo in opera il 20 luglio del 1944, ma fallito nel sangue, ad opera dell’eroico colonnello von Stauffenberg.
Ma torniamo alle leggi razziali. Nell’azione clandestina di mia madre un posto particolare ebbe il soccorso agli ebrei perseguitati, a cui fu chiamata dal Cardinale di Torino Maurilio Fossati, che aveva ricevuto precise disposizioni dal Vaticano.
Scrive ancora mia madre: “La redazione dell’Italia era diventata un punto di incontro: non solo preparavamo il giornale antifascista clandestino che si distribuiva attraverso le parrocchie, ma aiutavamo anche gli ebrei in collaborazione con il cardinale Fossati e il suo segretario mons. Barale. La cosa più importante era procurare agli ebrei documenti falsi. A prepararli era un piccolo comune (n.d.r Santa Margherita Ligure) che aveva i timbri giusti per falsificarli. Poi andavamo a prenderli dal vescovo di Genova”.
Così la giovane partigiana tornava a Torino, con indosso le carte false, contando sul fatto che una ragazza dall’aria innocente non venisse fermata e perquisita.
Un giorno però i tedeschi fecero irruzione in vescovado, a Torino, con prove schiaccianti e arrestarono mons. Barale. Fu tradotto in un campo di transito in Lombardia in attesa di essere inviato in un lager. Si salvò perché si era ormai alla fine della guerra e poco dopo arrivò la liberazione.
Diretti testimoni come i miei genitori confermavano quanto scritto dallo storico del fascismo Renzo De Felice: “la persecuzione antisemita è stata una delle tappe più significative della storia del fascismo. Con essa il regime divorziò pubblicamente dal popolo italiano, dalla sua mentalità, dalla sua storia”.
Ma allora perché fu possibile? perché quasi tutti tacquero? Bisogna tener conto che l’Italia viveva sotto una dittatura severa, che buona parte dei dirigenti fascisti si uniformò, come i più fanatici militanti, e poi la paura delle conseguenze a partire dal posto di lavoro. Naturalmente ci furono anche i vigliacchi, i profittatori, i traditori. Furono forse tanto numerosi quanto i “buoni” più coraggiosi. Ma la stragrande maggioranza della gente non collaborò, soprattutto quando la politica del fascismo nei confronti degli ebrei subì una svolta radicale a partire dal 1943, dopo l’8 settembre e la costituzione della Repubblica di Salò: quando si passò dalla discriminazione all’eliminazione sotto la regia tedesca.
Gli ebrei residenti in Italia, italiani e stranieri, al momento delle leggi razziali (in Italia ne erano arrivati circa 10 mila negli anni Trenta in fuga soprattutto dalla Germania) erano una piccola minoranza: circa 60-70 mila.
6800 furono deportati, circa il 10% dei cittadini di “razza ebraica o parzialmente ebraica” che erano in Italia. Quasi il 90% si salvò.
Dietro a ogni ebreo catturato vi fu la delazione di italiani attratti dalla ricompensa offerta e lo zelo di fanatici repubblichini.
Ma d’altro lato gli ebrei furono aiutati da una vasta rete di solidarietà, che fu favorita in primo luogo dalla fitta rete di contatti familiari e sociali che gli ebrei italiani avevano con non-ebrei.
Privati cittadini, ma anche istituti religiosi, orfanotrofi, parrocchie aprirono le loro porte ai fuggitivi. La geografia dei luoghi di rifugio offre una immagine molto vasta delle dimensioni del fenomeno.
A conferma, cito ancora una testimonianza che mi è stata fornita da un amico valdese. In quelle valli si rifugiarono diverse famiglie ebree . Scrisse la componente di una di esse, Franca Debenedetti Loewenthal, sulla rivista “La Beidana” di Torre Pellice: “in quel momento sulla testa di ogni ebreo c’era una taglia con una cifra consistente, che veniva data a chi avesse denunciato la presenza di un ebreo. Molti miei correligionari subirono questo destino, proprio per la delazione di alcune persone. Invece la popolazione di Rorà si dimostrò sempre molto solidale con noi, tacque, non parlò, non ci tradì, nessun ebreo nella Val Luserna venne preso dai tedeschi né venne deportato per la delazione della popolazione.”
Paolo Girola