Ma ora per il Tff si apre un nuovo fronte: che cosa “fare da grande”, visto il riconoscimento unanime di “festival tra i grandi”, certamente in Italia, ma anche fuori dai confini.
Intanto, un bilancio positivo, anche per la qualità degli ospiti, presenze più o meno dovute a motivazioni strettamente cinematografiche – Salvatores che ha offerto agli spettaori di tutte le generazioni i suoi 5 film “del cuore”, il regista greco Costa Gravas con un premio alla carriera, Moretti con il restauro di “Palombella rossa”, Rita Pavone per i suoi trascorsi di attrice con i film “musicarelli” degli anni ’60 “tratti” dalle canzoni del tempo, Sorrentino che ha ricevuto il nuovo “Premio Langhe-Roero-Monferrato” – che tutto sommato hanno fatto superare qualche perplessità della vigilia. Ciascuno di loro ha recitato la sua parte, compreso Moretti, che tuttavia ha scelto il ruolo meno simpatico, deludendo i fans che pendevano dalle sue labbra, rimaste pressocché mute.
Nei film in concorso e negli altri delle tante sezioni, le nuove generazioni in fermento in ogni angolo del globo. Dalla voglia insopprimibile di fare il cinema per raccontare e raccontarsi, anche talvolta sfiorando il velleitarismo, tuttavia perdonabile nei giovani che si accostano per la prima volta alla macchina da presa, all’urgenza di far conoscere quel malessere non solo giovanile che percorre gli ambienti sociali di tutte le latitudini.
E il film vincitore del festival numero 34 ha segnato uno dei momenti più alti della rassegna: “The donor” (Il donatore), del cinese Zang Qiwu. Un giovane cineasta che certamente farà ancora parlare di se. Racconta lo stato di abbandono e di miseria in una delle tante “periferie” malsane delle metropoli cinesi, qui Shangai. Un pover’uomo meccanico di motorette con moglie e un figlio promettente negli studi, costretto per sopravvivere a vendere un rene a un ricco cugino. E la sua fiera quanto misurata resistenza e rifiuto a un’altra richiesta, un vero e proprio ricatto brutale e inaccettabile. La Cina lanciata verso lo sviluppo che tutti conosciamo e che perfino impensierisce, con i suoi nuovi ricchi e i poveri di sempre costretti anche a vendersi per campare. Un film esemplare di un regista alla prime armi che tuttavia sa già raccontare con piena maturità, senza enfasi e senza retorica, senza musiche destinate a commuovere, né una parola o un’immagine in più di quelle necessarie.
Anche gli altri film del concorso hanno offerto tanti motivi di interesse, segnalando la ricchezza e la vivacità di un cinema giovane che promette nuovi autori. Compreso l’unico italiano in competizione, “I figli della notte”, opera prima di Andrea De Sica, generoso e carico di ambizioni, che tuttavia si è un po’ disperso nel racconto della voglia di “evadere” di giovani rampolli rinchiusi in un collegio, destinati a diventare l’elite di domani.
Un nuovo successo, dunque, per il festival, che ora però è chiamato a mantenere e consolidare i lusinghieri risultati raggiunti, e a porsi nuovi obiettivi. Perché se c’è una manifestazione cinematografica di interesse internazionale che non può permettersi neanche per un’edizione di vivere di rendita, questa è proprio Torino. Il direttore Emanuela Martini, stimata cinefila di competenze riconosciute, ha chiuso il suo secondo anno di direzione lasciando tutti soddisfatti. E ora ha un contratto per un’altra edizione. Con questi risultati, la Martini può restare per altri anni ancora. Sono passate 10 edizioni dalla “svolta” del 2006, quando al vertice del festival venne chiamato Nanni Moretti, che attirò attenzioni da mezzo mondo. E dopo di lui, si volle continuare con i “direttori star”, Gianni Amelio e Paolo Virzì, che a loro volta organizzarono ottime edizioni nel segno del festival “cinefilo e popolare”.
Ora Torino se non ha bisogno di cambiare direttore, ha invece una forte necessità di continuare a reinventarsi e di crescere. Di diventare grande davvero. E a mancare non sono certo le idee, i programmi. Per un altro necessario salto di qualità mancano le risorse. Quei fondi che non essendoci portano a rinunciare in partenza a invitare una star compatibile con la storia e l’anima cinefila del festival, che però ha costi altissimi se non altro di spostamenti e ospitalità. Certo, il miracolo di ottime edizioni con un bilancio fermo a 2 milioni e 300 mila euro, ridotto rispetto a quello dei direttori star, può ancora verificarsi. Niente di paragonabile con gli 8-10 milioni e più che hanno a disposizione Roma e Venezia, per quanto non si tratti di fare concorrenza diretta alle due manifestazioni.
Ma il rischio è anche quello di restare fermi. Ora si affacciano nuove proposte, come quella di portare il festival anche nelle periferie, o di organizzare un simil-Tff anche a giugno, o addirittura di spostarlo tutto nel primo mese dell’estate. Idea, quest’ultima, già cestinata, anche perché troppo vicino a Cannes (maggio) e a Venezia (settembre). Tutto può andare bene, purché non si cada nella ridondanza, per non dire altro, nella dispersione di risorse, o nel “popolare” ad ogni costo.
In realtà, serve uno sforzo in più degli enti pubblici che finanziano il festival, ma soprattutto un grande sponsor munifico, non solo quelli locali, ai quali comunque va un segno di gratitudine, che lo sostengono anche per un “dovere di concittadinanza”. Un mecenate più o meno disinteressato, e perché no, anche interessato, che voglia legare il suo nome al festival più singolare ed eccentrico d’Europa, così diverso da ogni altro. Qualcuno appassionato di cinema e affascinato dalla città, dalla sua a sua volta singolare bellezza, da cercare e da convincere con pazienza, con tanta autorevolezza, con contati sovranazionali, qualcuno che non si ponga più di tanto il problema del “ritorno” immediato per le sue attività, che questo benedetto ritorno lo abbia da altri investimenti molto più dispendiosi e certamente più sicuri. Una pia illusione, forse. Ma chissà.
Prossima edizione del Tff dal 24 novembre al 2 dicembre, spostata di una settimana più avanti, per distanziarsi, in un calendario strettissimo, un po’ di più da altri festival.
[Nino Battaglia]