Report sui Rohingya i musulmani in fuga dal Myammar

Un gruppo di Rohingya nello Stato Rakhine

Negli ultimi mesi ne sono arrivati più di 650mila e la maggior parte delle persone rohingya, l’etnia musulmana scappata dal Myanmar dopo decenni di violenze e persecuzioni, ha trovato rifugio nella provincia di Cox’s Bazar, una città costiera del Bangladesh. In assenza di un vero piano di accoglienza sono nati decine di campi profughi, grandi quasi come delle città.

I Rohingya sono una delle più grandi comunità musulmane del Myanmar, un gruppo etnico con una propria lingua e cultura. Nonostante sia possibile comprovarne la presenza da secoli sul territorio del Myanmar, i Rohingya sono tuttora considerati immigrati irregolari provenienti dal Bangladesh. Di conseguenza subiscono discriminazione, sfollamento e gravi limitazioni alle loro libertà.
Nel censimento nazionale del 2014 – il primo dal 1983 – il governo birmano ha proibito ai Rohingya di identificarsi come tali e ha chiesto loro di registrarsi invece come bengalesi, cosa che la maggior parte ha rifiutato di fare. Questa recente cancellazione demografica dei Rohingya ha aggravato le restrizioni esistenti che già impedivano a molti di studiare, lavorare, sposarsi, registrare nascite o decessi e accedere ai servizi sanitari.
La maggior parte dei musulmani Rohingya vive nella zona settentrionale dello stato di Rakhine, uno dei più poveri del Myanmar. Nel Rakhine settentrionale, i Rohingya vengono cancellati dalle liste dei residenti se non sono presenti durante ispezioni annuali effettuate casa per casa. Devono ottenere un permesso ufficiale per spostarsi da un villaggio all’altro per lavoro, procedimento notoriamente burocratico. Spostarsi fra i villaggi richiede in ogni caso il passaggio da checkpoint, dove i Rohingya incontrano minacce, estorsioni e violenza fisica. Inoltre, sono spesso imposti coprifuochi che impediscono ai Rohingya di uscire di casa o viaggiare di notte.
Dagli anni 70 in poi si sono verificate numerose espulsioni di massa che hanno portato centinaia di migliaia di Rohingya oltre la frontiera con il Bangladesh, dove poi sono rimasti. Due ondate di scontri fra musulmani e buddisti hanno scosso il Myanmar a giugno e ottobre del 2012: sono state molte le persone uccise o ferite e le proprietà distrutte, e molti anche gli indizi a suggerire che queste violenze fossero incoraggiate e coordinate dall’esercito birmano. Non sorprende, quindi, che nel 2012 ci sia stato un esodo di massa via mare verso la Malesia che ha esposto a enormi rischi centinaia di migliaia di persone, facendole divenire bersaglio dei trafficanti di esseri umani. Da metà 2015 la rotta via mare è stata dismessa quando i governi in quest’area hanno inasprito i controlli sulle reti dei trafficanti via mare.

L’Esercito della salvezza dei Rohingya
L’ARSA, l’esercito della salvezza dei Rohingya dell’Arakan, prima denominato Faith Movement or Harakah Al Yaqeen, è un gruppo di ribelli attivi nella parte settentrionale dello Stato di Rakhine, in Myanmar, attivo dal 2013. Il Comitato Centrale per l’Antiterrorismo del Myanmar ha definito l’ARSA gruppo terroristico nell’Agosto 2017, ma il gruppo respinge quest’accusa, affermando che il suo principale obiettivo è quello di difendere i diritti dei Rohingya.
A ottobre 2016, un altro gruppo di militanti Rohingya di nome Harakah al-Yaqin (Movimento della Fede) ha attaccato 3 checkpoint nello stato di Rakhine, uccidendo 9 ufficiali di polizia. L’esercito birmano ha risposto con una capillare operazione di sicurezza, durante cui le sue truppe sono accusate di aver commesso moltissimi abusi di diritti umani. Sullo sfondo di questo conflitto, il 25 agosto 2017 è stato orchestrato – probabilmente dallo stesso gruppo, che ora si fa chiamare ARSA (Esercito per la Salvezza dei Rohingya dell’Arakan) – un attacco coordinato a 30 posti di blocco e una base militare, che ha ucciso 11 membri delle forze armate. Sin dai giorni immediatamente successivi, l’esercito birmano ha sferrato attacchi feroci sui villaggi e sui civili Rohingya, sostenuto dalla polizia di frontiera e da popolazioni locali di altre etnie.

La grande fuga
A partire dunque dallo scorso 25 agosto, oltre 600.ooo profughi Rohingya sono fuggiti dal Rakhine settentrionale e arrivati in Bangladesh. Xchange ha voluto capire quali viaggi abbiano intrapreso per mettersi in salvo e documentare le cause scatenanti che li hanno costretti a partire. Dopo aver portato a termine, fra il 15 settembre e il 15 ottobre 2017, 1.360 interviste con rifugiati Rohingya in sette campi profughi nella zona di Cox’s Bazar, Xchange ha ottenuto un quadro dettagliato delle violenze subite dai Rohingya in Myanmar.
Gli intervistati provenivano da 120 villaggi diversi nelle province di Maungdaw, Buthidaung e Rathedaung, nel Rakhine settentrionale. I loro viaggi sono durati da 1 a 17 giorni, a seconda della distanza del villaggio d’origine dal confine con il Bangladesh. Questi viaggi sono avvenuti principalmente a piedi, anche se molti hanno dovuto pagare trafficanti bengalesi per attraversare il fiume Naf o intraprendere la traversata marittima del Golfo del Bengala.
Quasi tutti gli intervistati (92%) hanno visto o vissuto personalmente violenze che li hanno costretti a fuggire. Pur variando i dettagli delle aggressioni riferite, dalle testimonianze nel loro insieme si osservano chiaramente alcuni schemi di violenza, dietro cui si intravede una campagna di espulsione sistematica e ben coordinata.
Il tipo di aggressione più comunemente riferito è la distruzione delle proprietà e l’incendio su larga scala dei villaggi (63%): immagini satellitari analizzate da Human Rights Watch mostrano un’area lunga 100km rasa al suolo dagli incendi. Distruggendo i villaggi Rohingya, gli aggressori non hanno lasciato agli abitanti altra opzione che fuggire. Questi attacchi sono spesso stati accompagnati da sparatorie generalizzate (40%) che hanno causato molti morti e feriti gravi.
Altre violenze riferite sono gli abusi sessuali commessi contro donne e ragazze (13%), sottoposte a stupri anche di gruppo e spesso in pubblico; le nostre informazioni indicano che una forte stigmatizzazione della violenza sessuale ha contribuito a traumatizzare le vittime e creare rotture all’interno delle comunità Rohingya. Inoltre, abbiamo raccolto molteplici testimonianze sull’uccisione intenzionale di bambini e neonati (5%), spesso annegati o bruciati vivi.
La nostra ultima domanda chiedeva agli intervistati se sarebbero disposti a tornare in Myanmar. Nonostante gli eventi atroci documentati, il 78% ha detto che prenderebbe in considerazione l’ipotesi di tornare, ma solo se la situazione migliorasse abbastanza. L’alto numero di intervistati disposti a rientrare in Myanmar si spiega in parte perché esistono pochissime opportunità per i rifugiati Rohingya in Bangladesh. Generazioni di Rohingya continuano a vivere nei campi profughi nella povertà più assoluta e senza accesso a servizi adeguati, con limitata libertà di movimento e senza opportunità di progresso.

Per saperne di più:
Per sostenere il lavoro di MOAS in Bangladesh –
www.moas.eu/it/donate.
Per contribuire alle ricerche di Xchange – www.xchange.org/donate.
Per leggere il report completo – http://xchange.org/reports/pdf/The_Rohingya_Survey_2017-xchange_IT_01.pdf.

Cos’è MOAS
MOAS è una ONLUS internazionale impegnata ad alleviare la sofferenza di chi rischia la vita per mettersi in salvo. Dalla sua fondazione nel 2014 ha soccorso e assistito oltre 40.000 persone nel Mediterraneo centrale e nell’Egeo. A settembre 2017 MOAS ha spostato il suo fulcro operativo in Bangladesh, dove fornisce assistenza medica ai rifugiati Rohingya.

Perché il Bangladesh
Ad agosto 2017 MOAS ha concluso la sua ultima operazione di salvataggio nel Mediterraneo centrale: a fronte di gravi dubbi sul destino dei migranti riportati in Libia, l’organizzazione ha scelto di non sostenere un meccanismo di soccorso che non garantisca l’accoglienza in porti sicuri. Vista la situazione sempre più drammatica dei rifugiati Rohingya fuggiti alla repressione militare in Myanmar, MOAS ha inaugurato a settembre la sua nuova operazione nel sud-est asiatico, utilizzando la nave Phoenix per portare 40 tonnellate di aiuti umanitari al governo bengalese.

Missione Rohingya
Ad ottobre 2017 MOAS ha aperto la prima Aid Station, o clinica da campo, a Shamlapur, un villaggio di pescatori sul Golfo del Bengala. A novembre ha aperto una seconda Aid Station ad Unchiprang, un accampamento vicino alla Riserva Naturale di Teknaf che accoglie circa 23.000 persone. Ogni clinica può visitare fino a 300 pazienti al giorno; entrambe offrono assistenza medica primaria e secondaria ai rifugiati Rohingya e servizi emergenziali alla popolazione locale bengalese.

Cos’è Xchange
Xchange è partner di MOAS per la ricerca e l’analisi dei fenomeni migratori. Obbiettivo principale dell’organizzazione è diffondere informazione esaustiva e accessibile, riassumendo migliaia di viaggi individuali in una sintesi rappresentativa.

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